Diario di un viaggiatore

“La mia esperienza di viaggiatore è disperata”, impreca Guido Ceronetti: “Non posso entrare in una camera d’albergo senza che mi prenda la smania di migliorare tutto, dall’entrata alla forma del bicchiere nel bagno. Niente è al suo posto, niente è giusto…”.

“Trovo le stanze d’albergo generalmente detestabili e mi sono chiesto se potesse, la letteratura, contribuire a migliorarle”; così Giovanni Mariotti nell’introduzione a un romanzo di Tanizaki. La nevrosi alberghiera esplode in paragoni e rievocazioni. A me capita, da decenni ormai, quando mi tarda il sonno nella stanza sconosciuta di un albergo, di evocare, al buio, altre camere dove ho dormito: a volte sono ridotte a schemi assai vaghi, ciascuna col suo preciso stato d’animo.

Quando, leggendo la Recherche, scoprii che Proust aveva questa abitudine, conclusi che dipende dall’importanza che uno dà, oppure non dà alle cose. C’è chi le guarda con indifferenza assoluta, e chi le eleva a protagoniste, e simboli. Io la penso come Madame Merle che, nel Portrait of a Lady di Henry James enuncia il manifesto di tutti coloro che alle cose danno importanza: “Quando avrete vissuto quanto ho vissuto io, vedrete che ogni essere umano ha il suo guscio, e che questo guscio va preso in considerazione”. A me il guscio non è mai indifferente. Come l’antipatica signora, trovo difficile giudicare una persona senza la collaborazione dei suoi abiti, del mobilio, della sua casa.

Dostojewski, che si contenta di farmi sapere che l’Aleksey Ivanovic del Giocatore alloggia, nell’immaginaria Rulettenburg della sua rovina, “in una stanzetta del quarto piano dell’albergo”, mi delude, quando vorrei conoscere il guscio dove si consuma la sua catastrofe. Non così Proust quando mi racconta “l’occhiata diffidente” che si scambiarono lui e gli oggetti del Grand Hotel di Balbec.

Quante occhiate di desolato sospetto non ho scambiato con stanze che stringevano, appena entrati, il cuore di malinconia, e raccontavano misere vicende, ti facevano sentire un pellegrino dimenticato, uno sradicato vagabondo.

Stanzoni romani tra il Pantheon e la Minerva, alberghi di preti dove la luce stagna a mezz’aria intorno alla lampadina rossastra.

Lo stanzone, il letto cigolante, lo specchio sudicio di un sedicente “grande albergo” di Bari. I mobili verniciati, la carta da parati sporca di rossetto di un altro “grande albergo” di Palermo, lo sciattume pretenzioso d’un ospizio di Gerusalemme, umido e tetro, con le pareti stillanti una lenta acqua: la stinta miseria di certe stanze di Madrid, la vasca da bagno troneggiante al centro, come un mobile; la sporcizia degli hotels della provincia francese, la tristezza degli alberghi di Liegi, i più disperati dell’Europa occidentale, l’abiezione, tra lurida e desolata, delle stanze di Praga, i loro omologhi orientali.

Fantasmi di camere, cui di rado puoi contrapporre l’odore di legni tropicali e la fida atmosfera dei grandi alberghi della Lisbona che fu; la giocondità aperta di noi dimenticate stanze in riva al Neckar, appena fuori di Heidelberg, vecchi accoglienti legnami di locande danubiane, a ridosso delle orgogliose abbazie barocche, a Krems, Melk, Sankt Florian, dove aspetta la resurrezione Anton Bruckner. La pace opulenta di un grande stabilimento di Zurigo, avvolto nel suo verde involucro di bosco, appena risonante di un educato cinguettare; il silenzio d’una premiata fabbrica della tranquillità a Losanna, con Io specchio del lago, laggiù, tra ramo e ramo; la Stimmung elegante e vecchiotta di alberghi viennesi, sempre in minor numero, ahimè, d’anno in anno. Nelle stanze dell’orgoglioso Sacher non chiuderai occhio, a causa dell’assordante circolazione rotatoria che vi si svolge davanti.

Camere, e camere: dove ho dormito, dove non riuscii a dormire. Mi stanno davanti come volti di persone. Più vive di tante persone, che assai minori effetti ebbero nel determinare quegli umori e stati d’animo che imprimono nella memoria il sigillo d’un luogo, d’una città. La cameretta che scovammo a Kalambaka, nell’Epiro, sotto i massi mostruosi delle Meteore, in vista del Peneo scintillante di freddo alluminio nella valle, davanti all’alta catena del Pindo carica di neve, mi resta nella memoria come necessaria premessa all’evocazione di un incontro umano avuto laggiù. Eravamo in due a cercare, e ci trovammo nella corte a pergolato d’una casetta, dove due vecchine col velo nero mormorarono sorridendo un “pacari” (esortazione a pagare in anticipo), residuo probabile dei ricordi, allora non remoti, d’una nostra occupazione. La scaletta di legno bucava un fitto ordito di foglie di vite, coi grappoli appesi. Scegliemmo una cameretta con vista sulle montagne, e subito m’invase una di quelle fantasie, che l’età poi spegne, di vita semplice, tra pochi elementari bisogni, silenzio e natura. Le grosse lenzuola odoravano di tante erbe a me sconosciute: distinguevo la menta, il timo. I sacconi di foglie crocchiavano senza pudori. Schliemann, dissi, si sarebbe sentito un re se avesse potuto sempre trovare stanze come questa.
L’arredo umile e odoroso mi riportò su sentieri che credevo perduti, amori cli adolescenza, al cui vertice stava una fura da romanzo l’età che le fughe con l’amata non si sognano negli alberghi cosmopoliti di Paul Morand e Aldous Huxley, ma piuttosto tra «la pace quasi conventuale» che Giorgio e Ippolita trovano ad Albano, nel «vecchio albergo di Ludovico Togni», dove «ogni suppellettile aveva un aspetto di familiare vecchiezza. I letti, le sedie, le poltrone, i canapè, i canterani avevano forme d’altri tempi cadute in disuso; i soffitti, dipinti a colori teneri, gialletti e celestini, portavano nel centro una ghirlanda di rose o un qualche simbolo usuale, come una lira, una face, un turcasso».

Da quando la letteratura ha smesso di offrirci descrizioni d’interni come questa, del Trionfo della Morte, il tempo, il turismo, la modernità, un tecnicismo da fontanieri e da elettricisti hanno ingoiato quegli avanzi di mondo sommerso. Come sempre, la natura imita l’arte. Da quando gli scrittori si sono messi a sbrigarsela, per parlare d’una camera d’albergo, con aggettivi come anonimo, gli arredatori si sono studiati d’imitarli ai diversi «livelli», lo squallore dell’alberghetto, e il danaroso trionfale del Grand Hotel. Adulterii svelti come incontri di bordello si consumano in rifugi di montagna. La Leda dell’Amore coniugale di Moravia si prende nel letto un ufficiale degli Alpini e non gli domanda neppure come si chiami. Figuriamoci se bada all’arredo della stanza.

L’ultima che mi ricordo, la più recente delle mie dimore temporanee, è quella di un grande albergo di Torino. Recentemente «ristrutturato» esibiva tutta l’arrogante e vacua presunzione che i luccicare delle superfici vetrate smaltate, e un’abbondanza ridicola di giocattoli elettrici, unite a leggiadre cestine contenenti emulsioni, schiume, sciampi, spille da balia e aghi per cucire, potessero simulare l’idea del lusso e della prosperità. Al posto del tavolino da notte, una bottoniera, ma che di co, un cruscotto di tasti e levette che si ergevano da un banco smaltato: schioccando come i tubi lanciasiluri di un sottomarino, luci accendevano l’una dopo l’altra, dovevi sperimentare tutte quell’intera panoplia elettricistica, prima di avere il ristoro dell’oscurità: relativa, però, in quanto, con tutto quel delirio psichedelico, le imposte e le griglie alle finestre erano rimaste tali quali prima del rinnovamento, la luce entrava dalla strada.

Che cosa mai può sentirsi un’anima persa tra quelle stupide file di bottoni elettrici, davanti all’immenso specchio che copre l’intera parete di fronte, mi chiedevo: indeciso tra la stantia routine dello stomachevole spaziale e quel miscuglio abbietto di clinica e di ufficio a cui irresistibilmente tende l’arredo delle democrazie industriali.

Articolo di Piero Buscaroli, uscito su "Il Giornale", il 18 agosto 1985