Le memorie di un italiano inutile

Considerazioni su una Nazione in coma

Articolo di Giovanni Sessa
pubblicato il 19/12/13
su centrostudilaruna.it

Piero Buscaroli è indubbiamente uno dei “grandi vecchi” della destra italiana. Mi è capitato di usare la stessa espressione, che ha per me, inutile dirlo, valenza positiva ed affettuosa, a proposito di Primo Siena. Personaggi diversi tra loro per scelte intellettuali e vocazione caratteriale ma accomunati dalla pervicace resistenza culturale ed esistenziale nei confronti degli idoli che il senso comune dell’italiano medio ha iniziato ad adorare alla fine del secondo conflitto mondiale. Non ho mai conosciuto di persona Buscaroli, eppure mi sento in debito con lui per gli insegnamenti e gli stimoli che ho potuto trarre dai suoi libri, dai suoi articoli de il Borghese, dagli editoriali domenicali del Roma, quotidiano che nei primi anni Settanta io vendevo da “militante” in sezione e nella piazza del paese ove risiedevo, assieme a Il Secolo d’Italia. Gli scritti di Buscaroli sono caratterizzati da uno stile inconfondibile, inimitabile, potrebbe non firmarli, risulterebbero comunque riconoscibili. Il tratto scarno ed incisivo della frase, l’eleganza del periodare, il tralignare in esso di conoscenze erudite accompagnate dal  ritmo affabulatorio, rendono unica la sua prosa.

La cosa risulta evidente fin dalle prime pagine della sua ultima fatica letteraria, Una nazione in coma. Dal 1793, due secoli, appena uscita per Minerva edizioni. Si tratta di un percorso della memoria (e nella memoria) di Buscaroli, un uomo che, richiamando un noto titolo di Prezzolini, potremmo definire un “italiano inutile”, un rappresentante di quelle minoranze intellettuali che in Italia, da due secoli, e in modo eclatante dalla caduta del fascismo, sono come, questa le sua definizione: “solitarie sentinelle nella notte”. Da queste parole si evince quale mai sia il file rouge del libro che presentiamo: si tratta del tentativo di elevare la memoria personale (e collettiva) a strumento di comprensione dello stato di prostrazione storica, politica ed esistenziale cui è giunto il nostro paese. Tentativo non fine a se stesso ma motivato dal voler determinarne il risveglio d’Italia dal coma in cui versa. Come non condividere l’intenzione dell’autore: la storia dello stato italiano è stata, dall’Unità ad oggi, con la sola eccezione della parentesi mussoliniana, un susseguirsi di errori strategici, un accumularsi, nei confronti di coeve realtà statuali europee, di debolezze politiche, che non poco hanno influito sulla tenuta etico-civile del nostro popolo. Lo stato di atavica arrendevolezza allo straniero è esploso, in modo teatrale e drammatico, l’otto settembre.

Quel giorno col regime morì la Patria, gli italiani persero l’anima, recisero il loro legame con il passato, con la storia e la tradizione. Molti nostri compatrioti allora pensarono che sarebbe bastato passare dalla parte dei vincitori per poter essere accettati, tollerati dai padroni che si insediavano nei palazzi del potere. Così non fu. Mentre i tedeschi rimasero fedeli a se stessi e sopportarono l’odio dei vincitori senza, però, conoscerne il disprezzo: “…noi fummo disprezzati unanimemente, da tutti: dai vincitori tardivamente acclamati, e dai vinti, anch’essi troppo tardi abbandonati”. Le nostre classi dirigenti sono state, di poi, specchio fedele di questa situazione. Incapaci di pensare all’interesse nazionale e di mettere in campo politiche atte a perseguirlo. Sono state fazioni e, in quanto tali, non hanno più prodotto grande politica.

Il racconto di Buscaroli prende avvio dagli anni immediatamente successivi al dramma dell’otto settembre. Dai banchi del Liceo Ginnasio “Benvenuto Rambaldi” di Bologna, fondato da suo padre, nel frattempo incarcerato, e nel quale il giovane Piero, in quanto fascista, non fu accettato quale iscritto alla II liceale. I ricordi di quel periodo, con la madre costretta a dare lezioni private di inglese per sostenere la famiglia, il sequestro di parte dell’abitazione, le inevitabili ristrettezze, il trasferimento a Roma dove il giovane frequentò il “Tasso”, non traggano in inganno. Non si tratta di un mesto e rinunciatario percorso della memoria. È in quegli anni che l’autore maturò una pervicace volontà di resistenza alla neonata democrazia che, fin da allora, a Buscaroli era chiaro, mostrava il suo carattere epidemico, in senso etimologico. Era un regime che si “sovrapponeva”, con i suoi riti e le sue istituzioni, al popolo. In nome di una conclamata libertà, nella prassi metteva in atto una progressiva riduzione della partecipazione popolare alla cosa pubblica. Resistervi era un dovere: “Tenni duro per mezzo secolo fino a questa vecchiaia” (p. 9).

Il Nuovo Regime dava mostra di sé da due secoli, dalla rivoluzione francese. Per questo Buscaroli presenta, con toni addirittura lirici e partecipati, le gesta del capo della prima resistenza alla  rivoluzione, quella vandeana. Si sofferma sulla descrizione della Vandea stessa, dei suoi cieli, dei suoi boschi, delle piazze e delle strade delle sue città e dei suoi paesi, sulle quali fiero e indomito, con il cappello con il pennacchio bianco al vento, accettò il proprio destino di ribelle Charette, l’eroe proibito della controrivoluzione. Non è certamente casuale che Solgenitsin, al ritorno dall’esilio americano, volle rendere gli onori ai martiri di Vandea, prime vittime sacrificali, ma purtroppo non ultime, del Nuovo Regime nella storia europea. Parlare di Charette e dei Suoi implica il porsi sulla strada del revisionismo storico, quintessenza del fare storia. Tutto il libro dello scrittore bolognese, in questo senso, è un nobile tentativo di  revisione storica, dialogico e non fazioso.

In questo senso, il lettore abbia contezza che Buscaroli concede, in qualche modo, l’onore delle armi perfino all’antifascista Benedetto Croce. Questi, nel discorso all’Assemblea Costituente del 24 luglio 1947 “Contro l’approvazione del dettato di pace”, scrisse una delle pagine nobili della nostra vita parlamentare attaccando la “cupidigia del servilismo” che dilagava tra la classe dirigente del bel paese. In tema di revisionismo, servendosi delle testimonianze di Luca Pitromarchi, Capo dell’Ufficio Guerra economica nel 1940, e di Pietro Gerbore, giornalista specializzato in relazioni diplomatiche, l’autore dimostra che Mussolini di fatto fu costretto alla guerra dalla contingenza storica e dal blocco commerciale imposto dall’Inghilterra. Sostiene, con persuasività d’accenti, che: “La Relazione Pietromarchi, alla quale mai nessuno si ricorda di dare un’occhiata, fornisce un’elencazione minuziosa, spaventosa: chi la legga, capirà gli scopi inglesi meglio che in qualsiasi invettiva anti britannica” (p. 91).

Memorie di natura diversa compaiono nel testo. Un ruolo centrale è svolto dai brevi medaglioni che Buscaroli dedica a quanti considera i propri Maestri o gli amici più cari, quelli con i quali ha condiviso un tratto di vita in comune. Sono “esercizi di ammirazione” (così lì avrebbe definiti la caustica penna di Cioran), che esaltano le qualità migliori di uomini quali Longanesi, Soffici, Tedeschi, il latinista Paratore, “fascista della facoltà di Lettere”, Messina e de Vergottini, per non parlare del genio, troppo presto dimenticato, di Vincenzo Cardarelli. Ritratti in cui la nostalgia per l’uomo, per l’amico, per il professionista, non impedisce a Buscaroli di soffermarsi anche su aspetti paradossali del carattere dell’uno o dell’altro, onde il lettore esce da queste pagine arricchito, quasi avesse conosciuto o frequentato di persona i personaggi descritti.

Altrettanto significative sono le pagine che Buscaroli scrisse quale inviato dal fronte vietnamita. Una guerra, quella nel sud-est asiatico che profondamente segnò, negli anni successivi, il destino di un Occidente pavido e rassegnato. Risultano invece contraddistinte da afflato poetico le pagine del libro dedicate alla Dalmazia uccisa e perduta, le cui genti sono state resi incapaci “di pensare e sognare in latino”, o quelle che descrivono lo scempio paesaggistico del nostro paese: “Quello che di armonioso e sobrio, e raffinato e bello fu prodotto nelle nostre città e nel nostro paesaggio nel corso dei secoli fu compito da una minoranza civile che riuscì a non farsi sommergere dalla maggioranza indifferente e addirittura ostile” (p. 103). È questa minoranza civile che deve oggi tornare a contare affinché l’Italia esca dal coma in cui versa da troppo tempo. La storia non dà verdetti definitivi, ci piace pensarla come il luogo dell’apertura inesausta, del sempre possibile.

Per quanto riguarda l’autore, crediamo possa valere per lui, per il suo sentirsi inattuale, questo aforisma di Gómez Dávila: “Non c’è cosa più deprimente dell’appartenere a una moltitudine nello spazio. Né più esaltante dell’appartenere a una moltitudine nel tempo”.